di Luca Marini (smartweek.it)
Meno di un mese dopo la commemorazione del venticinquesimo anniversario di piazza Tienanmen, ad Hong Kong, dove ha sede l’unica piazza cinese autorizzata a ospitare un evento dedicato al ricordo del 4 giugno 1989, si sta consumando una lacerazione che potrebbe avere un effetto tellurico sulle relazioni tra l’isola e la Madrepatria.
Se la memoria del 4 giugno 1989 tende forzatamente a scemare nella coscienza pubblica continentale, la sensibilità e l’empatia della popolazione di Hong Kong nei confronti del massacro non è mai stata così alta. Il 4 giugno scorso in città è stato inaugurato un Museo dedicato, e il 1 giugno scorso oltre 3 mila persone sono scese in piazza per chiedere a Pechino la liberazione dei prigionieri politici e il riconoscimento delle responsabilità dei fatti di sangue del 1989. Questo è il clima in cui, l’1 luglio si è chiuso un referendum non ufficiale, organizzato da svariati gruppi locali, che ha raccolto nell’arco di 15 giorni circa 800mila voti a favore dell’elezione diretta del Governatore della regione amministrativa speciale.
Ma perché organizzare oggi un referendum sul sistema di elezione del Chief Executive (così è chiamato il governatore di Hong Kong), la cui elezione diretta non dovrebbe avvenire prima del 2017?
Il tema del suffragio universale e dello sviluppo democratico era un tema caldo ad Hong Kong già prima del trasferimento di sovranità dalla Gran Bretagna alla Cina nel 1997. Il Chief Executive oggi è votato dall’elettorato solo una volta dopo essere stato nominato da un comitato di 1200 persone, selezionato da Pechino. La maggior parte dei membri del comitato sono esponenti dell’élite finanziaria, con spiccati interessi in Cina.
I promotori del referendum hanno previsto la possibilità di esprimere il proprio voto online e offline (15 postazioni in giro per la città) per circa 10 giorni consecutivi, ad una fra tre proposte di elezione diretta del Chief Executive.
Un suffragio universale che non è ben accetto a Pechino. Il governo cinese ha tollerato negli anni il “laboratorio democratico” dell’isola, ma al momento accetterebbe obtorto collo una soluzione di democrazia diretta piena, ed è al contrario disposto a dare il via libera ad una formula che preveda una sorta di pre-selezione sulla lista dei candidati. Per questo motivo le autorità cinese hanno diffidato pubblicamente il referendum e i suoi promotori, definendolo a più riprese “illegale e nullo”.
Ma, a fianco di un’avanguardia più combattiva che ha tenuto dritta la barra del timone della campagna democratica nonostante le critiche anche interne, sta emergendo una componente della società di Hong Kong che, pur rispettando i patti e le delicate dinamiche della relazione con Pechino, non vuole più avere a che fare con un interlocutore aggressivo. La pubblicazione del Libro Bianco sulle relazioni con l’ex colonia britannica non ha di certo contribuito a rasserenare gli animi. Nel documento pubblicato da Pechino il 10 giugno, il governo accusa la popolazione di Hong Kong di avere le idee “confuse” riguardo ai limiti della propria autonomia, sotto il sistema “un Paese, due sistemi” introdotto da Deng.
In più, la risposta del governo centrale al referendum e alle manifestazioni dei giorni scorsi è stata impacciata: richiami al patriottismo misti a propaganda virale sui potenziali effetti apocalittici di un blocco prolungato della viabilità dell’isola causato dalle manifestazioni dei sostenitori del suffragio universale.
L’effetto combinato è stato quello di provocare la reazione più che infastidita dell’attuale Chief Executive, Leung Chung Ying. Leung aveva chiaramente e preventivamente dissociato il governo locale dall’iniziativa dei gruppi promotori del referendum, sottolineando come questo fosse poco più che un sondaggio della volontà popolare, senza nessuna velleità normativa. Per questo motivo le dure critiche che le autorità e i media governativi di Pechino hanno rivolto al leader dell’ex colonia britannica nei giorni successivi al referendum non gli sono piaciute. Leung ha rimandato direttamente al mittente le provocazioni a lui indirizzate, ma c’è di più: ha chiaramente affermato che “Nessuno dovrebbe fare un paragone tra i cittadini di Hong Kong e quelli della Cina continentale”, soffiando ulteriormente sul fuoco.
La natura simbolica del referendum era stata ribadita in origine anche dagli stessi promotori. La gente di Hong Kong generalmente non ha alcuna obiezione a rimanere sotto la sovranità cinese, fin tanto questa sovranità non interferisce con i diritti civili locali e politici previsti dalla Basic Law dell’ex colonia. Per questo motivo la reazione cinese ha scosso particolarmente Leung e il suo entourage e ha reso ancor più delicata la posizione della comunità finanziaria internazionale presente sull’isola, imbarazzata dalla situazione e presa in mezzo ad una schermaglia politica interna che potrebbe avere ripercussioni molto forti sugli interessi dei grandi gruppi stranieri.
Quali scenari si possono aprire ora? E’ più che provabile che il pragmatismo dell’élite locale della regione amministrativa speciale emergerà come spesso è accaduto in passato, contribuendo a guidare le frange più progressiste verso un compromesso pacifico e l’adozione di una road map progressiva per l’attuazione della piena democrazia ad Hong Kong. La ripercussione più forte nel medio e lungo termine, invece, si avrà sul sistemo politico interno alla madrepatria.
In questo senso la storia di Hong Kong, ex-colonia britannica, unica piazza in cui sono svolte le commemorazioni di Tienanmen, è paradossale: che l’evoluzione del sistema politico-democratico cinese debba diffondersi sul continente come un virus veicolato da qualche portatore sano delle isole? Se nel 2017 Hong Kong arriverà in qualche modo ad imporre la soluzione di un turno elettorale veramente libero, senza candidati pre-selezionati ed altre soluzioni di compromesso varie ed eventuali, il messaggio per Pechino e soprattutto per altre aree dove scorrono forti spinte indipendentistiche, vedi Xinjang, sarà difficile da ignorare.
Articolo tratto da “Smartweek.it“
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