Se la Fed vuole proprio rialzare i tassi, questo sembra essere il momento migliore, ma perché non si muove?
Qualche giorno fa abbiamo parlato del netto rialzo dei salari negli Stati Uniti, immaginando probabili effetti di medio periodo sull’inflazione.
Oggi, vorremmo dare un’occhiata direttamente al tasso di inflazione negli USA, con una lente di ingrandimento.
Questa è la situazione attuale:
(Doug Short)
Mentre l’inflazione “headline” (quella che non conteggia l’evoluzione dei prezzi di beni alimentari ed energetici) è ben al di sopra del target di lungo periodo (pari, lo ricordiamo, al 2% annuo), quella “core” rimane lontana dall’obiettivo della Federal Reserve.
Come mai? La risposta nella tabella seguente:
(Doug Short)
L’inflazione “core” è spinta verso l’alto dai prezzi delle case (i cui prezzi, nel conteggio americano, contano per il 42,2% dell’intero indice). I prezzi dei trasporti, in forte deflazione, fungono da ancora per l’indice “core”.
Ma, quando guardiamo all’indice “headline”, il peso del tracollo dei prezzi dei beni energetici è enorme.
Con Wall Street ai massimi di tutti i tempi, la Clinton in vantaggio clamoroso su Trump in tutti i sondaggi per le elezioni di novembre, la produzione industriale in netta ripresa dopo lo stop dei mesi precedenti e i salari in crescita convincente, la Fed potrebbe avere una buona occasione per rialzare i tassi allo 0,75% (un livello sempre bassissimo, certo, ma mantenere una gradualità nel rialzo è fondamentale).
Se poi l’OPEC trovasse un accordo per congelare i prezzi del petrolio, allora la Fed sarebbe quasi costretta ad intervenire. Questo attendismo ingiustificato (stiamo parlando di un semplice rialzo da quota 0,50% a 0,75%) potrebbe essere pagato caro in futuro.
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