Distruggi di qua e distruggi di là il risultato finale è scontato: l’Italia ha davanti a sé, di questo passo, un futuro da economia pre-industriale, è come se fosse finita una Guerra Mondiale (tratto da “Keynesblog”)
Nell’ultimo Rapporto della commissione europea (ottobre 2013), si legge che, in tutti i Paesi dell’eurozona, è in atto un significativo processo di deindustrializzazione (link), e si auspica che – a seguito dell’attuazione di “riforme strutturali” – si generi un’inversione di rotta tale da portare il tasso di industrializzazione dall’attuale 13% in rapporto al PIL al 20% entro il 2020[1]. L’Italia è, fra i Paesi dell’eurozona, quello maggiormente coinvolto in questo processo.
E’ certamente vero che la deindustrializzazione costituisce l’altra faccia della c.d. finanziarizzazione (ovvero della crescente propensione delle imprese a utilizzare risorse per fini speculativi nei mercati finanziari)2, così come è attestato che il grado di finanziarizzazione delle imprese italiane è notevolmente più basso di quello della gran parte dei Paesi OCSE (v. Salento e Masino, 2013). Ci si trova di fronte a un puzzle che rinvia alla domanda: per quale ragione la deindustrializzazione è più accentuata in Italia a fronte del fatto che le nostre imprese mostrano minore propensione a destinare risorse, per finalità speculative, nei mercati finanziari? In altri termini, se la deindustrializzazione viene fatta dipendere dalla finanziarizzazione, ci si dovrebbe aspettare che laddove il grado di finanziarizzazione è basso, è maggiore l’accumulazione di capitale. Cosa che in Italia non succede.
E’ convinzione diffusa che la deindustrializzazione in Italia dipenda essenzialmente dagli eccessivi oneri burocratici, dall’inefficienza della pubblica amministrazione, dalla presenza della criminalità organizzata, dalla lentezza delle procedure giudiziarie, aggiungendo che questi problemi sono maggiormente accentuati nel Mezzogiorno e che ciò spiegherebbe la sostanziale desertificazione produttiva italiana e, ancor più, delle regioni del Sud. Si tratta di una tesi che, sebbene colga parte del fenomeno, non riesce a dar conto del perché, a fronte del fatto che questi problemi sono strutturali, essi abbiano causato la drammatica caduta degli investimenti – in Italia e nel Mezzogiorno – solo nel corso degli ultimi anni.
Questa tesi è, tuttavia, rilevante dal momento che legittima la presunta necessità di interventi di semplificazione e delle c.d. riforme strutturali: liberalizzazioni e ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, in primo luogo. La logica che è alla base di provvedimenti di liberalizzazioni consiste nella convinzione stando alla quale la concorrenza stimola l’innovazione. E’ bene chiarire che si tratta di una convinzione molto discutibile: i principali flussi di innovazione registratisi negli ultimi decenni (ci si riferisce, in particolare, alle innovazioni nel settore informatico) sono derivati da investimenti effettuati in mercati oligopolistici o monopolistici, spesso – ed è soprattutto il caso degli Stati Uniti – attraverso trasferimenti pubblici al settore militare, nel quale l’attività di ricerca è più intensa. Inoltre, il dogma per il quale tutto ciò che è pubblico è inefficiente sconsiglia l’attuazione di politiche industriali e porta a ritenere efficaci interventi finalizzati a incentivare le “vocazioni naturali” del territorio: turismo e agricoltura, innanzitutto3.
Contrariamente all’opinione dominante, si può affermare che la caduta della produzione industriale dipende essenzialmente da cause che rinviano a scelte di politica economica.
1) La deindustrializzazione italiana, e ancor più meridionale, è in larghissima misura imputabile alle politiche di austerità (e all’assenza di politiche industriali) (link). E’ significativo, a riguardo, il fatto che, diversamente da quanto è accaduto nei principali Paesi dell’eurozona (Francia e Germania in primis), in Italia gli interventi dello Stato a favore delle imprese sono stati significativamente ridotti, più che dimezzandosi nel periodo compreso fra il 2006 e il 2011. Più in generale, come è stato rilevato (link), in Italia le politiche di austerità sono state più intense di quelle attuate in molti altri Paesi dell’eurozona, e perfino più accentuate rispetto a quanto disposto dai Trattati europei. Poiché la gran parte dell’imprenditoria italiana, soprattutto in fasi recessive, sopravvive grazie a sussidi pubblici, la loro riduzione – in regime di crisi – ha ovviamente contribuito a produrre un massiccio incremento del numero di fallimenti o, nella migliore delle ipotesi, un drastico calo dei profitti, soprattutto delle imprese localizzate nelle aree meno sviluppate del Paese, e, a seguire, una rilevante contrazione degli investimenti. Ciò a ragione del fatto che il Mezzogiorno ha una struttura produttiva composta prevalentemente da imprese di piccole dimensioni, poco internazionalizzate e con bassa propensione all’innovazione. Poiché si tratta di imprese che operano essenzialmente su mercati locali, la riduzione della spesa pubblica – riducendone i mercati di sbocco – ha ridotto i loro profitti.
2) La deindustrializzazione italiana è anche imputabile alla restrizione del credito e, per quanto riguarda il Mezzogiorno, al razionamento del credito. A riguardo occorre sgombrare il campo da un equivoco. E’ convinzione diffusa che il razionamento del credito dipenda dalla sottocapitalizzazione degli istituti di credito. Si tratta di una convinzione che, per quanto riguarda l’Italia, è falsificata sul piano empirico, dal momento che – come attestato dalla Banca d’Italia – il nostro sistema creditizio è sostanzialmente solido (link). Si può, per contro, sostenere che la restrizione del credito dipende dalla caduta della domanda aggregata, secondo un circolo vizioso che si articola nei seguenti passaggi. La riduzione della spesa pubblica genera riduzione delle dimensioni aziendali e la riduzione delle dimensioni aziendali disincentiva l’erogazione di credito da parte delle banche. A ciò si aggiunge che la riduzione dei profitti, in quanto peggiora le aspettative imprenditoriali, riduce anche la domanda di credito da parte delle imprese (v. Forges Davanzati e Patalano, 2013). E’ ben noto, infatti, che le banche (in particolare le banche italiane), nel decidere se concedere o meno finanziamenti alle imprese, tengono conto delle loro dimensioni, attribuendo a imprese di grandi dimensioni bassa probabilità di fallimento e, per converso, elevata rischiosità per i finanziamenti erogati alle piccole imprese.
In questo scenario, non è sorprendente il fatto che – legittimata dalla “teoria del ritorno alla terra” – l’economia italiana stia regredendo a un’economia agricola, prefigurando un futuro pre-industriale.
Note
[1] Si stima, a riguardo, che, la numerosità di fallimenti aziendali, nell’ultimo triennio, non ha precedenti nella storia dell’economia italiana. Nel corso del primo trimestre del 2013, sono stati avviate circa 3.500 pratiche di fallimento, circa il 12% in più rispetto al 2012. Dal 2009, le aziende italiane fallite sono oltre 45.000. A ciò si può aggiungere che ciò che resta del settore industriale italiano è, in larga misura, di proprietà straniera: si pensi ai casi di Star, Carapelli, Bertolli e Riso Scotti ora di proprietà spagnola, di Gancia di proprietà russa, di Parmalat, Galvani, Locatelli e Invernizzi acquisite da imprese francesi, di LoroPiana, Gucci, Bulgari e Fendi anch’esse francesi, di Baci Perugina e Buitoni, oggi di proprietà Nestlè (Svizzera) e Fiorucci (Spagna).
[2] Il grado di finanziarizzazione viene convenzionalmente quantificato dal rapporto fra attività finanziarie detenute dai residenti in un Paese rispetto al corrispondente valore del PIL degli stessi anni.
[3] Va rilevato che gli studi empirici sull’ipotesi di crescita trainata dal turismo sostanzialmente concordano nel ritenere questa ipotesi suffragata per i Paesi in via di sviluppo. Nel caso di Paesi con tradizione industriale, per contro, si rileva che politiche fortemente orientate a generare una struttura produttiva orientata al turismo sperimentano, di norma, bassi tassi di crescita (http://www.rcfea.org/RePEc/pdf/wp41_09.pdf).
Riferimenti bibliografici
Forges Davanzati, G. and Patalano, R. (2013), Credit supply, credit demand and unemployment. A PostKeynesian-Institutional approach, 17th Conference of the research network Macroeconomics and Macroeconomic Policies (FMM) “The job crisis: causes, cures, constraints” – Berlin.
Salento, A. e Masino, G. (2013). La fabbrica della crisi. Finanziarizzazione delle imprese e declino del lavoro. Roma: Carocci.
Articolo tratto da “Keynesblog”
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