Con un tweet il premier Enrico Letta ha annunciato l’abolizione graduale del finanziamento pubblico ai partiti, ma noi vogliamo mettere le mani avanti
Memori delle esperienze passate, non vogliamo cadere in facili momenti di entusiasmo. Anche perchè, diciamocelo, di entusiasmo ce ne sarebbe ben poco, visto che in ogni Paese civile l’esito di un referendum sarebbe subito preso in considerazione dalla classe dirigente.
Ma si sa, in Italia siamo speciali e ci abbiamo messo vent’anni prima di arrivare all’eliminazione del finanziamento pubblico ai partiti (o rimborso elettorale, chiamatelo come volete).
Vent’anni, e ora dovremmo attenderne altri tre. Sì perchè, per evitare pesanti conseguenze sui dipendenti dei partiti (che saranno probabilmente messi in cassa integrazione, dopodiché cercheranno un lavoro vero, si spera), l’abolizione sarà graduale.
L’anno prossimo ci sarà una riduzione al 60%, l’anno successivo al 50% e quello dopo al 40%. In seguito, dal quarto anno, il finanziamento pubblico dovrebbe (il condizionale qui è d’obbligo) scomparire del tutto.
Personalmente non sono affatto convinto della buona volontà dei partiti, tanto che ritengo molto probabile che, nei prossimi tre anni, qualcuno in Parlamento trovi il modo per reintrodurre il finanziamento pubblico sotto falso nome, ancora una volta.
Secondo la bozza del ddl entrata in Cdm, i partiti che non adotteranno uno statuto, con criteri di trasparenza e democraticità, non potranno essere ammessi a benefici quali le detrazioni per le erogazioni volontarie, la destinazione volontaria del 2 per mille e la concessione gratuita di spazi e servizi, così, giusto per non far mancare un affondo finale al M5S.
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